Multifonia (I)

Lettera a Luca Cartolari
16 luglio 2003

Mi è sempre piaciuto, nella musica di Giacinto Scelsi, quel suono che sembra accadere a causa di forze interne proprie, senza l'intervento “esterno” della mano del compositore, eppure accadendo in maniera così sensata. I compositori contemporanei, anche i più grandi, raramente riescono a insufflare un carattere così fortemente autopoietico nella loro musica. Mi sembra ci riescano meglio gli improvvisatori (Ornette Coleman, Anthony Braxton, il collettivo AMM, il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza), mentre nei compositori l'atto compositivo volitivo e deliberato fa sempre capolino tra le fibre dell'accadere sonoro. Non si tratta di un giudizio negativo, tutt'altro; in Ligeti, che condivide con Scelsi il lavoro su fasce sonore sature di intervalli microtonali, l'impronta volitiva soggettiva è un valore aggiunto che dirige la tempesta senza toglierle forza. Però a qualcosa necessariamente rinuncia, e quel qualcosa è uno degli aspetti misteriosi della musica che più mi sta a cuore.
 
È collegato a questo mistero, per esempio, il fatto che la polifonia della musica di Scelsi raggiunga una fusionalità tale da spingersi oltre la micropolifonia di Ligeti. Parlo quantomeno dello Scelsi più inequivocabilmente unico, quello che si manifesta a partire dai “Quattro pezzi per orchestra su una nota sola” del 1959. La polifonia scelsiana non è necessariamente più micro di quella ligetiana, ma è ancora più organica, un flusso unitario e al tempo stesso polivoco, un accadere unitario ma magmatico e apparentemente non eterodiretto. Forse, in questo senso, si potrebbe dire che più che polifonica la sua musica sia multifonica. Sotto questo aspetto Scelsi è ancora più avanzato di Ligeti o forse ancora più arcaico, gettando un ponte, per fare solo un esempio e forse neanche troppo azzeccato, con le antiche ma tuttora praticate polifonie-multifonie dei pigmei, talvolta realizzate anche con una voce sola tramite impressionanti tecniche di jodeling su piccoli intervalli.
 
Questo porta alla nota affermazione secondo cui Scelsi non compone con i suoni ma compone il suono. Affermazione del tutto giustificata, ma non è il suono a interessarmi, bensì quel suo scaturire da forze mentali sepolte sotto la corteccia della volontà consapevole. Forze che Scelsi descrive in termini mistici che non provo neanche a contraddire ma che mi interessano meno del coraggio di vivere che accendono. D'altronde Scelsi stesso afferma, nella sua autobiografia “Il Sogno 101”, di non essere interessato alla sperimentazione sonora ma al processo di liberazione spirituale che la musica può incarnare e possibilmente innescare all'ascolto. Per citare le sue parole: «Vorrei dire che, se qualcuno volesse fare uno studio sui miei quattro “Quartetti”, si renderebbe conto che il discorso è sempre il medesimo, ma con mezzi, tecnica, linguaggio sempre diversi. È sempre la medesima storia, se storia si può chiamare, e cioè la progressiva liberazione. E chi si limiterà al fatto acustico o a ciò che può essere considerato una ricerca strumentale, non avrà capito un bel niente. In questa mia musica il contenuto determina automaticamente la forma.»(1)
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(1) SCELSI G., Il sogno 101, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 330