Le Twin Towers e l'invidia di Stockhausen

In Alternative. Democrazia in cerca di partecipazione, 3/4, 2005

Lo scandalo

Domenica 16 settembre 2001 (5 giorni dopo l'attentato alle Torri Gemelle di New York) Karlheinz Stockhausen, il grande compositore tedesco, commentò pubblicamente: "Ciò che è accaduto (attenzione, ora dovrete rivoluzionare il vostro modo di pensare…) è la più grande opera d'arte mai realizzata. Che degli spiriti si dedichino a un atto unico, inconcepibile per noi musicisti, che delle persone si esercitino fanaticamente per dieci anni, come pazzi, in vista di un concerto, e poi muoiano… Immaginate: 5000 persone concentrate su una rappresentazione e, in un attimo, spinte verso la resurrezione. Io non ci arriverò mai. Al confronto, noi compositori non siamo niente" (da "Le Temps", Svizzera, del 19 settembre 2001, articolo di Julian Sykes). Il commento di Stockhausen venne riportato (con qualche frase in più o in meno) da diverse testate in tutto il mondo. A seguito di tali esternazioni, le autorità culturali della città di Amburgo e la fondazione "Die Zeit" annullarono immediatamente i due concerti con musiche del compositore, previsti per quella giornata. Le polemiche non mancarono (pur nella limitata risonanza che, nel mondo 'normale', hanno le dichiarazioni di un compositore!). Stockhausen affermò che le sue parole erano state estrapolate dal contesto dell’intero discorso, nel quale parlava di opera d’arte di Lucifero, entità – secondo Stockhausen – metastorica e metamundana, che racchiude in se stessa le infinite forme di forza distruttiva che possono esprimersi nell’intero universo.

Analizzando le principali prese di posizione – in cui mi sono imbattuto sia discutendo dell’episodio con amici o colleghi musicisti, sia leggendo articoli o lettere pubblicate nei mesi successivi su quotidiani e riviste musicali – ho potuto notare un’essenziale differenza tra l’impostazione concettuale delle posizioni contro e quella delle posizioni pro.

Gli argomenti contro sono accomunati dalla critica all’irrispettoso cattivo gusto, al cinismo e all’estetismo forzato e un po’ inumano di Stockhausen, aggravato dal suo misticismo manierato e pseudo-pacificatorio (o pseudo-inquietante), che si rivela in concetti quali ‘resurrezione’, ‘era di Lucifero’, e via dicendo. Le posizioni pro, pur accogliendo quasi sempre tali riserve, accettano anche la logica sottesa alle parole del compositore, e sottolineano la tangenza sempre esistita tra senso del bello e senso del terribile, tangenza espressa dal concetto di sublime, che lega tra loro – idealmente e, in una certa misura, esperienzialmente – la nascita di un amore individuale e un'eruzione vulcanica, lo spettacolo di un'aurora boreale e il crollo di una diga, e via dicendo(1).

Insomma, si contesta Stockhausen 'da fuori', giudicando che cinismo, cattivo gusto ed estetismo siano elementi di critica negativa sufficienti (e che sia sufficiente evocarli, ritenendo ovvio il perché li si ponga sul tavolo della discussione(2)); e lo si difende, invece, ‘da dentro’, penetrando l’ordine concettuale che innerva le parole del compositore, e sostenendo che – dall’interno di quell’ordine – il parallelismo tra attentato e opera d'arte risulti, almeno parzialmente, sensato e fecondo. 

Il mondo

Sono trascorsi quattro anni da quei fatti. Stockhausen recentemente, non avendo mai rinnegato il proprio pensiero, ha ampliato il raggio del ragionamento. “Dicono che i responsabili siano un gruppo di Arabi. Non mi interessa. Mi interessa la forza distruttiva di Lucifero, espressa non solo a New York, ma anche in altri eventi come il recente tsunami. Sono anche un realista che crede nell’umanità e nel fatto che questa stia lentamente progredendo, giorno dopo giorno” (Kenneth Walton, 18 aprile 2005, riportato su www.stockhausen.org, sito ufficiale del compositore e della Stockhausen-Verlag, sua casa editrice).

Il mondo, nel frattempo, ha proseguito la corsa lungo il piano inclinato che tutti conosciamo. Esternazioni assurde se ne sentono a ogni angolo della comunità multimediale. La propaganda militaristica, terroristica e bigotta dilaga su tutti i fronti ed è sempre più difficile e cruciale opporvisi senza cadere, a propria volta, nella schematicità sterile della mera contro-propaganda. Gli artisti più sensibili al problema si sentono chiamati in causa, perché la spettacolarizzazione mediatica della tragedia che stiamo attraversando, sembra chiedere una mobilitazione del potenziale spettacolare delle stesse idee. Ma si tratta di una mobilitazione assai delicata da gestire. Perfino il bravo e coraggioso Michael Moore, nel suo Farenheit 9/11, ha talmente premuto il piede sul pedale del sarcasmo, da far somigliare il tono della sua magistralmente argomentata invettiva, al tono di chi inveisce per partito preso, senza motivazioni fondate e razionali. Certo, parliamo solo di una somiglianza di toni, forse impalpabile, ma pur sempre pericolosa perché rischia di ridurre la portata persuasiva di un opera che se, da una parte, rimane comunque potente e preziosa, dall’altra – proprio per la spettacolarità dello stile documentaristico-cinematografico con cui si esprime – suscita inevitabilmente una quota di senso di fiction e, quindi, di non credibilità.

Stockhausen, è evidente, non si è neanche avvicinato alle responsabilità, pur discutibili, di cui si fa carico Moore. Convinto che il suo ruolo nel mondo sia quello di tutelare la specificità spirituale del fare artistico, al di là delle stesse contingenze storiche e umane in cui si manifesta, ha ritenuto (a torto o a ragione) di potersi e sapersi esprimere super partes, lasciando a noi comuni pensanti l’impegnativo compito di sospendere le ‘facili’ valutazioni politiche e sentimentali del suo gesto e di addentrarci – stimolati dal suo genio immaginifico – nella meditazione sulla potenza del mistero dell’Opera d’Arte. Mi sembra quindi quantomai importante(3) provare a contestare le parole del compositore, partendo dall'interno della loro stessa logica, accettandone il cattivo gusto, l'estetismo, il cinismo e l’evidente (e forse, proprio per questo, relativa) pericolosità sociale e evidenziandone, oltre a un’indubbia carica intellettualmente stimolante, una certa debolezza e superficiale banalità, alle quali è legata la loro reale perniciosità.

Violenza ed estetica

Suscitano innanzitutto perplessità alcune questioni di fondo. Se si considera Lucifero autore dello scempio (cioè un’entità extraumana e sovrastorica, una forza attiva nell’universo), perché allora valutarne l’operato secondo parametri estetici così umani (e tutto sommato un po’ sospettamente hollywoodiani)? Da un punto di vista metastorico e metaculturale, infatti, è considerabile come un capolavoro artistico – a ben guardare altrettanto stupefacente – il fatto che ogni giorno i peli della mia barba crescano, o che un poro della mia pelle si intasi di sebo e pus producendo un brufolo! Anche questi sono miracoli di sinergie orchestrate da una forza misteriosa, non riducibile a un’iniziativa individuale…

La posizione di Stockhausen sembra piuttosto allinearsi sull’estetica del gesto violento, che caratterizza la cultura contemporanea, e che sta vivendo punte di popolarità proprio in questi nostri spaventatissimi anni. Gli esempi sono innumerevoli, dalla visione Mel Gibsoniana della passione di Cristo, ai bambini impiccati di Maurizio Cattelan, dalle trasformazioni chirurgiche del volto di Orlan, al ritualismo iconografico che ha caratterizzato le pratiche disumane nelle carceri di Abu Ghraib… L’elenco può andare avanti all’infinito – toccando film (Trainspotting, Crash, Sin City…), gruppi musicali (Rage Against The Machine, Napalm Death, Zu …), autrici ossessionate da “rabbia e orgoglio”, etc… – accostando tra loro nomi e realtà nobili e meno nobili, poiché la funzionalizzazione estetica della violenza non può essere vista – in sé – né come valore né come disvalore. E’ nell’interezza del suo impiego morale, intellettuale e artistico che si può riscontrare una sua maggiore o minore salute.

Entrare in contatto con la dimensione repellente del reale, tendezialmente rimossa perché troppo dura, dolorosa e contraddittoria può costituire l’inizio di un processo di crescita individuale e sociale. E’ quanto professava Antonin Artaud, agli inizi del 900, col suo Teatro della Crudeltà. Ma esiste pur sempre il rischio e – oggi sicuramente – la tendenza a scivolare sulla superficie delle cose, confondendo la nudità frontale della violenza con la riflessione su di essa. Spettacolarità contro problematicità. Ma è proprio la riflessione, il bisogno di capire e di capire se stessi dopo il trauma subìto e agìto, a costituire l’occasione umana offerta dalla violenza. L’artista che crea un’immagine della violenza, senza creare con altrettanta forza e sottigliezza l’immagine di una via da suggerire all’anima per sorgere e porre riparo allo scempio subìto…; l’opera d’arte che non raccoglie nei palmi delle mani gli occhi rotti dai calci per custodirne e confortarne il pianto, altrimenti inceppato, reso impossibile dalla pressione esercitata contro la vittima…; l’artista, insomma, che evoca la ferita, senza evocare un’immagine di cura, compie solo il passo della gamba destra, tralasciando quello della sinistra (o viceversa) e rischia di non sostenere quella mobilitazione dell’anima che il dolore sempre richiede. Pretendere che l’onere di questo compimento di senso ricada tutto sulle spalle del fruitore, significa fuggire la propria responsabilità di artista. E questa pretesa è sottesa nella valutazione dell’attentato dell’11 settembre proposta da Stockhausen.

Certo, l’artista non deve trasformarsi in un precettore. L’immagine di cura, di cui è chiamato a farsi carico, deve godere di un’abissale irriducibilità a qualunque lettura lineare, irriducibilità propria del simbolo, nell’accezione più elevata del termine. Solo così potrà veicolare l’ambiguità irrisolvibile di cui è portatore ogni evento umano. Guai a negare quest’ambiguità: moralismo e faciloneria sono in agguato. Guai anche a limitarsi a esporne le componenti ovvie, senza scavare in quelle sottili e impensate. Specialmente in faccende delicate come la violenza sociale e di massa. E’ un compito gravoso, ma possibile. Ci sono riusciti (per citare due esempi emblematici per potenza e sottigliezza) Marco Bechis, col suo sublime (quello sì) “Garage Olimpo” e Andrej Tarkowsky, nel profondo e altissimo “Andrej Rublev”; non ci riescono a mio avviso (cito altri due esempi, altrettanto emblematici nella loro pretesa di potenza e sottigliezza) Kim Ki-Duk e Takeshi Kitano, coi loro esercizi di stile altrui, segnati dall’assenza, tanto quanto dalla posa, di uno sguardo autenticamente soggettivo sulla violenza che sciorinano. Nei film di Bechis e Tarkowsky la durezza dell’immagine della violenza (nel suo scivolare incontenibilmente e tragicamente dall’ambito sociale a quello inter-individuale e viceversa) è significativamente inversamente proporzionale all’esplicità della violenza delle immagini attraverso cui si svolge la narrazione.

Sono rimasto nell’ambito delle imprese cinematografiche, perché sono quelle più vicine alla percezione che, del bestiale attentato, abbiamo avuto noi, fortunati, che non siamo stati abbattuti letteralmente. Ma vale la pena di fare una capatina in ambito teatrale e leggere le parole di Artaud, impressionantemente vicine al dibattito Stockhausen-Twin Towers, eppure da questo stesso così lontane per sottigliezza, misura e – ritengo – fecondità.

“Cosa c’è di più abietto e nello stesso tempo di più biecamente spaventoso dello spettacolo di uno spiegamento di polizia (…). Quando la polizia sta preparando una retata, pare di assistere alle evoluzioni di un balletto. Poliziotti che vanno e vengono. L’aria è lacerata da lugubri fischi. Da tutti i movimenti si sprigiona una dolorosa solennità. A poco a poco il cerchio si stringe. Quei movimenti che prima sembravano fine a se stessi, a poco a poco svelano il loro scopo e tutto diventa chiaro, e in particolare quel punto dello spazio che ha fatto da perno. E’ una casa di aspetto qualsiasi; le sue porte all’improvviso si spalancano e ne esce in corteo un branco di donne, che camminano come se andassero al macello. La questione si complica, la retata era diretta non a una certa società equivoca ma soltanto a un ammasso di donne. Emozione e sbigottimento sono al colmo. Mai messinscena più bella si è conclusa con un simile finale. Noi siamo certamente colpevoli come quelle donne e crudeli come quei poliziotti. E’ proprio uno spettacolo completo. Ebbene, il teatro ideale è questo spettacolo. Quell’angoscia, quel senso di colpa, quella vittoria, quell’appagamento esprimono a meraviglia il tono e il senso della condizione mentale in cui lo spettatore si dovrà trovare quando uscirà dal nostro teatro (…). Vogliamo arrivare a questo: che ad ogni spettacolo allestito sia per noi in gioco una partita grave, e che tutto l’interesse del nostro sforzo stia in questo carattere di gravità (…). Lo spettatore che viene da noi (…) andrà ormai a teatro (…) pensando ovviamente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro.”(4)

Come si intuisce da queste brucianti parole, qui lo spettatore, di fronte alla provocazione che gli viene proposta (e non imposta, come nelle ‘Opere di Lucifero’), non viene lasciato solo, né, per questo, viene guidato nella costruzione di un senso univoco e quindi, in ultima analisi, per sconvolgente che sia, deproblematizzante. Questo equilibrio tra sforzo significatore e apertura delle possibilità di significazione, mi sembra la missione più alta tanto dell’artista, quanto del politico, del sociologo e del comune cittadino.

Sono perciò parzialmente in disaccordo con Barbara Spinelli quando (in un articolo intitolato “Il mutismo del male”, apparso su “La Stampa“ del 23 settembre 2001, a pochi giorni dall’attentato e dalle esternazioni di Stockhausen) scrive che “(…) forse è una trappola mortale, questa trepidante esplorazione di ragioni, motivi. Inavvertitamente, forse, stiamo cercando le parole lì dove la parola è stata bandita, siamo alla ricerca di spiegazioni lì dove nessuna spiegazione è disponibile (…). Da molti giorni ci si trova a cospetto dell’impensabile e si cerca di riempire questo vuoto. Si pronunciano torrenti di parole nella duplice illusione di capire e di consolarsi: un delitto accompagnato da rivendicazioni angoscia meno di un’empietà inspiegata (…). Le spiegazioni si accumulano, impazienti. Vorremmo trovare le parole di quel che è accaduto e non ci accorgiamo che in realtà stiamo fornendo parole all’autore dell’atto totalitario. Stiamo redigendo il discorso che egli non fa (…). Stiamo collaborando con le forze del male, giustificandole mentre le capiamo (…). Non è facile restare diritti davanti al nulla (…). Rimettere il crimine in un contesto intelligibile, dare un senso e addirittura una bellezza a quel che l’occhio nudo ha visto senza mediazioni: questa è la colpa di cui ci potremmo oggi macchiare. E’ il tranello in cui è caduto il musicista Stockhausen (…), la riva fatale cui può condurre il tentativo di riempire il vuoto con frasi che s’ingegnano a capire (…). Come si è visto, breve è il passo che conduce dall’invidia di Stockhausen all’estetica del crimine.”(5)

I corsivi sono miei, sottolineano l’invito di Barbara Spinelli a non parlare per gli attentatori, ma lasciare che il loro muto gesto, muto rimanga, senza ridurlo a spiegazioni. La Spinelli poi, alla fine dell’articolo, sostiene che, come ci ha indicato Paul Celan, la lingua del poetico invece debba alzare la testa e farsi sentire, “a condizione che la parola sia ferita dalla realtà e cercatrice della realtà”(6).

Ma appunto questa nuova, ferita parola, è la stessa del linguaggio ragionante vero, quello cioè che riflette fino in fondo sulle cose e non le riduce a logiche piatte e lineari, a spiegazioni anche solo involontariamente giustificatorie o a concetti superficialmente estetizzanti (come appunto, ha fatto – lo illustrerò meglio nel prossimo paragrafo di questo scritto – il buon vecchio Stockhausen). La colpa di queste forme del ragionare non sta nella loro natura ragionante, ma nel loro superficiale semplicismo. Non si tratta di spiegare meno, ma di tentare di ragionare e di spiegare ancora di più, ancora meglio, giungendo a una forza di penetrazione ‘verticale’ della realtà in tutto e per tutto analoga a quella che la Spinelli, con Celan, giustamente chiede alla parola poetica. Una penetrazione che comprenda, ma che non rinchiuda, che apra, anzi, ulteriore senso, a sua volta infinitamente problematizzante. Esiste un ragionare sterile, riduzionista, e un ragionare luminoso, profondo, non miseramente raziocinante né estetizzante, intimo riflesso simmetrico del ‘vero’ pensiero poetico.

Un certo inspiegabile magnetismo estetico nelle manifestazioni umane e naturali c’è, anche nelle più piccole o le più terribili(5). E’ pericoloso esaltare la bellezza di una coreografia di morte, ma è pericolosissimo zittire la parte di noi che da quella bellezza si sente turbato, affascinato e interrogato. Si abbandona, così, l’estetica nelle mani della retorica dei nazi-fascismi di ogni epoca e cultura. L’alternativa al gesto concettuale compiuto da Stockhausen, non può essere solo il silenzio (peraltro - concordo con la Spinelli – alleato indispensabile del pensiero, dialettico o poetico) ma un’azione concettuale più approfondita. Altrimenti rischiamo di farci sedurre da un pericoloso “sonno della ragione”, che solo apparentemente sarebbe uno stare dritti davanti al nulla.

Violenza ed estetica in Stockhausen

Il ragionamento di Stockhausen assume lo sciagurato attentato dell'11 settembre come metafora della vera Opera d'Arte, alla cui realizzazione l'artista deve 'soccombere' e la cui rappresentazione deve costituire un reale happening dalla forza distruttiva e catartica. Su questi presupposti è pacifico sentirsi in sintonia col musicista. L’Opera d'Arte non è solo l'oggetto finale che si ascolta al concerto, o si ammira al museo, o si vede sullo schermo, o si legge sulla pagina… L’Opera è anche tutto il processo concreto e mentale che a quell'oggetto ha portato. Quanto più l'oggetto risuona di quel processo, tanto più sarà imbevuto dell'energia psichica e simbolica mobilitata dall'artista nel lavoro di invenzione ed elaborazione. Il fruitore, pur se in parte inconsciamente, percepisce in filigrana le vicissitudini interiori attraversate dal creatore e se ne com-muove. Allo stesso tempo, quanto più ciò che appare in filigrana costituisce gli aspetti misteriosi, inconoscibili – se non per via di intuizione introspettiva – del procedimento creativo, tanto più l'oggetto-opera si staccherà dal suo creatore e dallo stesso procedimento generatore e, trascendendoli, smetterà di essere puro oggetto, diventando puro fatto, a sua volta generatore di conseguenze. Conseguenze che avvengono nel fruitore (artista compreso) quando si pone a confronto con l'opera e che, in un certo senso, costituiscono la vera Opera d'Arte. Da questo punto di vista, effettivamente, c'è una parentela tra, per esempio, il Diabolico Attentato e la Divina Commedia, entrambe opere dell'ingegno, destinate a imprimersi – in virtù del proprio studiatissimo impatto estetico – nell'immaginazione profonda di generazioni di esseri umani.

Ma dallo stesso punto di vista si scorgono due significative differenze:

1. Il processo generatore. L’opera diabolica in questione è tale non solo per le sue dolorosissime conseguenze (vittime immediate dell’attentato e catena di pretestuose rappresaglie messa in moto dagli Stati Uniti) ma anche proprio per il diabolico processo che l’ha creata. Un processo che consiste sia nella globalità delle terribili circostanze storiche, sociali, economiche e culturali che hanno reso l’opera possibile (imperialismi, totalitarismi, opportunismi, mercantilismi, militarismi e fondamentalismi vari), sia nel vero e proprio procedimento creativo adottato dai suoi autori e interpreti. "…Delle persone che si esercitano fanaticamente per dieci anni, come pazzi…” e aggiungerei: “per soffocare in se stesse ogni sentimento di tenerezza per l'altrui e la propria vita reale (dato che quella trascendentale ritengono di essersela, così, conquistata per sempre), e poi muoiano…". Si rabbrividisce nel percepire le energie psichiche mobilitate in quelle menti. Energie distruttive e autodistruttive che solo vite torte e piagate dalla violenza ideologica agita e subita possono portare a questo livello di compimento. Vogliamo chiamare questo complesso di processi ed esperienze umane “arte”!? E poi protagonisti e figuranti (questi ultimi non volontari) muoiono: così letteralmente che parlare di catarsi artistica è assurdo come il giochetto in cui si dice a una persona: "al mio tre, non pensare alla scimmia!".

2. Il processo generato. Un opera d’arte, una volta compiuta, dovrebbe, con la sua forza intrinseca, metterci a contatto con le zone più profonde del nostro essere e permetterci di meglio comprenderle, di impugnarle più consapevolmente e condurle verso una vita più piena, più alta e profonda. In una parola, dovrebbe darci vita. Può darsi che dal trauma dell’attentato alle Torri Gemelle molti di noi ne siano usciti con una maggiore consapevolezza di sé, della complessità del mondo e della ineludibile chiamata all’arme sottili dell'impegno nel reale, della responsabilità umana e civile. Ma questi traumi ce li fornisce già la vita attraverso una vasta scelta di malattie, terremoti, incidenti stradali e umane bassezze di ogni ordine e grado... L’artista che imita così piattamente la diabolica vita, artista non è, non solo perché è artisticamente inetto – in quanto non ha saputo contenere nel regno astratto e potente delle idee l’effetto ottenuto dall’opera sul pubblico – ma perché, proprio per questo suo fallimento, qualunque beneficio noi si sappia trarre dalla sua mal riposta presunzione demiurgica, sarà sempre atrocemente bilanciata dall’invadente assenza di quelli che, per mano sua, non ci sono più. “Immaginate: 5000 persone concentrate sulla rappresentazione…” e aggiungerei: “di un'idea di universo concepita da altri, dai ‘signori artisti’ e, in un attimo, spinte fuori da ogni futura possibilità di esistenza". Un processo ‘creativo’ che, in fondo, si commenta da sé.

L’Archetipo

Un’ultima considerazione. Stockhausen afferma: "…un atto unico impensabile per noi musicisti". Vorrei aggiungere: forse per lui!

La musica contemporanea colta si trova nella importante e impegnativa posizione di voler penetrare il mistero del suono, addentrandosi oltre la sua valenza emotiva. Ma questo “oltre la” per alcuni compositori è diventato, magari senza nemmeno accorgersene, un “a esclusione della”. Finché si  continuerà a snobbare inconsciamente (e quindi a invidiare) il potenziale realmente dionisiaco del suono, limitandosi al massimo a evocarlo concettualmente o culturalmente, si continuerà a soffrire di complessi di inferiorità verso tutte le espressioni artistiche e non-artistiche più plateali, come la musica Rock o, paradossalmente, come un esotico, terribile attentato, capaci di attirare su di sé l'attenzione delle masse e di imprimersi nell'immaginario collettivo. La soluzione non può essere quella di, bellamente, “tornare al sentimento”, dimenticando decenni di sperimentazione radicale, e millenni(7) di sofferta contestazione di ogni lacrimoso sentimentalismo, oppure di tradire la propria vocazione per la ricerca, dedicandosi a forme musicali più convenzionali (senza implicare in questa definizione alcun giudizio di valore), ma quella di abbracciare davvero, nella propria ricerca, la questione aperta della risonanza affettiva del suono. Archetipo che, anche quando rimosso, ribolle in attesa di essere – secolo dopo secolo – eternamente ri-conosciuto.

Copyright © Dario Buccino
In Alternative. Democrazia in cerca di partecipazione, 3/4, 2005 


(1) Cfr. Marco Belpoliti, Il primato del sublime, da “Golem-l’indispensabile”, n°7 - ottobre 2004, Motta On Line s.r.l. (www.golemindispensabile.it):
“La questione del sublime ha interessato a lungo i retori del I° secolo avanti Cristo (…). Ma è stato Kant, il filosofo di Könisberg, a definire una volta per tutte la questione. È un sentimento che mescola insieme sgomento e piacere e ha la propria origine nel grandioso, nell'incommensurabile: l'uomo prova un senso di finitezza, fragilità. Gli studiosi dicono che Kant è raffinato nelle sue definizioni; la sua originalità starebbe nell'impostazione trascendentale del problema. L'origine del sentimento del sublime - ciò che si prova davanti a una grande cascata, a un paesaggio desertico, allo Skyline di New York e naturalmente alla caduta delle Torri - non risiede tanto nell'oggetto contemplato quanto nel soggetto che lo guarda, nella disposizione d'animo. Si tratta di un tema di stretta pertinenza dei filosofi, basterà qui ricordare un aspetto: Kant afferma che la conoscenza non la si raggiunge solo attraverso il "concetto", ma anche mediante le emozioni che sono parte sostanziale della natura umana. Nel suo disegno filosofico il sublime si pone al confine tra estetica ed etica.”

(2) Il che forse può essere accettabile per quanto concerne cinismo e cattivo gusto, ma il concetto di estetismo, per essere considerato un vero elemento di valutazione negativa va definito con precisione.
Interessante, a questo proposito, è il commento di Silvio Pergameno, Karlheinz Stockhausen, su “Agenzia Radicale”, Anno I° n°110, 20 settembre 2001 (www.quaderniradicali.it):
“Karlheinz Stockhausen, uno dei maggiori compositori tedeschi di oggi, giorni fa in un’intervista alla radio di Amburgo ha definito gli attentati a New York ‘la più grande opera d’arte di tutti i tempi (…)’ Ha poi anche aggiunto: ‘Dove mi ha portato Lucifero?…Non è terribile cosa di colpo mi è venuto in mente ? E’ folle…’.
Stockhausen ha dichiarato di essere dispiaciuto per l’accaduto (…). Gli hanno dato, giustamente, del matto. Certo. Ma non si può non rilevare che si tratta di una pazzia particolarmente "specifica".
Tempo fa (…) scrivevo che Riccardo Wagner con la sua eccezionale musica ha espresso quello spirito originario e profondo dell’anima tedesca, che proprio in essa trova il più adeguato strumento dell’indefinitezza di cui si sostanzia: il sangue e il suolo, le pulsioni estreme del sentimento, lo spasimo delle tensioni mistico-sensuali, l’introversione esaltata e decadente e insieme nibelungica, eroica, guerresca e anelante alla dissoluzione.
Aggiungevo che Riccardo Wagner e Federico Nietzsche (…) sono stati componenti essenziali della cultura del novecento, per quella "modernità" vissuta di lotta alla ragione, che ha creato capolavori imperituri in ogni branca dell’arte, ma che sul terreno politico ha prodotto le immani tragedie che conosciamo.
Il nazionalsocialismo ha avuto dentro di sé questo estetismo delirante”

(3) Tanto più, considerando che l’intervento del compositore è tornato alla ribalta – almeno in Italia – proprio quest’anno, in occasione della mostra torinese, curata da Vittorio Sgarbi, “Il Male, esercizi di pittura crudele”: il commento di Stockhausen accompagnava, nell’allestimento, le immagini degli aerei kamikaze schiantati sulle Twin Towers.

(4) Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi.

(5) Barbara Spinelli, Il mutismo del male, “La Stampa” - 23 settembre 2001

(6) Ibidem

(7) A partire – almeno! –  dall’antica cultura tragica greca…