Dentro le quinte. Saggio introduttivo su Dario Buccino: artista

Di Alessandro Rossi

L’incontro con Dario

Parlare di Dario è fondamentalmente parlare di un prisma. Un prisma che ricevendo una fonte di luce bianca in entrata, sotto forma di raggio, ne disperde, ovvero ne distingue, tutte le differenti lunghezze d’onda in uscita. Andando così a formare raggi di luce colorata per l’osservatore meravigliato del prodigio.

Parlate a Dario di come è arrivato a capire di voler fare il musicista e lui vi parlerà di Adriano Olivetti e di come la catena di montaggio circolare sperimentata negli anni ’70 ad Ivrea dal grande Adriano abbia influenzato per misteriose sincronicità la scelta di suonare con dei cucchiai di legno barattoli di pelati e fagioli disposti a circolo intorno a lui, sotto forma di set di percussioni. Chiedetegli come e perché sia arrivato da bambino a suonare la chitarra, dopo che gli hanno negato di suonare prima la batteria e poi il sassofono, e lui vi dirà: “Perché volevo fare l’attore. E il ballerino. Uno di quelli della Carrà”. Si riferisce ai ballerini della Carrà che volteggiano su una mano nelle prime serate luccicanti della televisione a metà degli anni ‘70. Poi vi dirà dell’impatto che ha ricevuto dal guardare, nei film e negli sceneggiati, i gigionismi istrionici di Vittorio Gassman e Arnoldo Foà.

Aprite l’argomento sulla sua febbre maniacale e amorosa per l’incontro con la composizione della musica ‘colta’ e in particolare di quella Contemporanea, e potreste sentirvi rispondere: “Ho sempre odiato la Musica Colta Contemporanea”. Ma poi vi spiegherà il perché. Il lungo tragitto che conduce dal perché interrogativo al perché asseverativo. Nel tragitto scoprirete quanti compositori ha studiato, amato, da Gesualdo da Venosa, di cui ha imparato a imitare lo stile nell’arte del contrappunto fino a renderlo parente stretto dell’originale, a John Cage, cui è stato paragonato da illustri studiosi del secondo Novecento europeo. E da un’isola esperienziale passerà in breve ad un arcipelago concettuale ricchissimo di dettagli, recitando come un rosario imparato alla perfezione una gamma immensa di incontri, letture, viaggi, cimenti, studi, personaggi con cui si è imbattuto durante tale lungo cammino, sventagliando rigorose autoriflessioni su errori e glorie, sui perché di entrambi, ognuna delle quali riflessioni si incatena alla precedente e prepara la successiva. Ciò comporta che se ne levi una, leveresti il filo stesso del rosario picaresco di cui è costituito il suo vissuto umano ed artistico.

L’effetto di questa massa, proprio in senso fisico e non solo metaforico, quale oggetto vivente dotato di massa ultra-pesante, che incurva lo spazio-tempo intorno ad esso, (che Dario non ‘rappresenta’ bensì è), produce sull’ascoltatore attento e interessato, una sensazione vagamente psichedelica.

Mette letteralmente in trasparenza la sua mente e di rimando quella di chi lo ascolta, per effetto di un continuo rispecchiamento. Capita di sentirsi di attraversare lo specchio come Alice. Scivolando nella fatidica tana del Bianconiglio, senza aver nulla con cui fare attrito per rallentare la caduta e magari fermarsi.

Unica alternativa, lasciarsi portare via da lui. Come suggerisco facciate anche voi.

Ascoltando questo movimento in tutte le direzioni ci si perde: dalla minutaglia del quotidiano infantile, tessuta con dovizia di reminiscenze divenute nel tempo boati interiori assordanti, per arrivare alla serissima dissertazione su come la scrittura pentagrammatica imprigioni – e non liberi mai, secondo lui – aspetti fondamentali di quella fruizione più completa che una scrittura “corpocentrica” (come quella da lui brevettata e riconosciuta internazionalmente) invece è capace di far percepire allo spettatore. Ci si perde, sì. Ma ci si ritrova anche numerose volte, nel lasso di tempo di una conversazione con Dario.

Labirinti, metafore e altre creature 

Mi è giunta spesso alla mente un’immagine quando discorrevo con lui sui passaggi essenziali dell’intreccio indissolubile tra vita e opera. L’immagine del labirinto. Una struttura che si finge avere un obbiettivo, dato che dissimula il condurre da un punto A ad un punto B, e che tuttavia si connota per il fatto di porre illusioni concrete su come ‘non’ riuscire a realizzare tale scopo. Perciò il perdersi diviene parte essenziale del gioco, più ancora che trovare l’uscita che si dichiara come il vero obbiettivo. Perdersi è il gioco stesso. Diciamo che abbiamo bisogno di perderci per dare valore al raggiungere il punto B.  Se nel labirinto ci fossero dei cartelli con la freccia che indica “Uscita” verso la direzione giusta, allora tutta la magia del labirinto e delle sue siepi ben tagliate o delle pietre ben disposte, svanirebbe in un attimo. Ecco, Dario non mette cartelli, anzi, semmai li mette con frecce che puntano verso terra, o verso il cielo, ad arte, nella direzione sbagliata. Di sicuro non c’è scritto sopra “uscita” o “entrata” ma al limite “entrita” per di qua, “usciata” per di là. Dunque, il perdersi sale alla potenza di due e poi di tre e non c’è un modo che non passi per l’assestargli un colpo secco in testa, o un “ti va di bere qualcosa, Dario?” che arresti il suo disseminare falsi indizi e profondersi in interpretazioni di interpretazioni di indizi che hanno finito per diventare reali anche per lui. E qui lo si inizia ad amare. Lui non ti introduce nel labirinto che ha creato per far sì che tu ti perda e per poi venire con paterna bonomia a dirti: “Vieni, figliuolo, ti indico io la strada dell’uscita”. Lui si è perso da anni nel suo labirinto, ci vive dentro, e subito ti fa sentire fratello nello smarrimento che lo pervade e lo eccita; felice di poter avere compagnia in quel dedalo sofisticato che ha creato lui stesso. Ho detto che, al limite, i suoi cartelli sono sovversioni del linguaggio, beh, non sono stato del tutto sincero. Lui dispone lungo le pareti del labirinto indizi che hanno la forma di geroglifici, ideogrammi, pittogrammi, scritture cuneiformi, esagrammi a mo’ delle divinazioni I-Ching, puntigliosamente estratti dal cilindro di una fantasia al servizio di una funzione precisa e sacra: l’Azione che si fa suono. Rivolta a noi. Quindi è un labirinto marcato da glifi misteriosi per il profano, che assurgono ad indicazioni strettissime e disciplinate al millimetro, per l’iniziato, che le legge e le segue. È un labirinto sonante. Usando i suoi neologismi, sorti per esprimere aree concettuali e indicazioni di prassi differenti da quelle regolarizzate dagli studi classici, ci ritroviamo in un complesso meccanismo che permette di partecipare attivamente e assistere a quello definito da lui: il processo di “Acustificazione”.

E qui il gioco diventa immediatamente sensoriale, a più livelli. Devi guardare, ascoltare, capire, leggere, interpretare, ‘sentire’, perderti, ritrovarti forse. Se ti fidi di lui, devi lasciarti andare al vederlo felicemente perso nella sua stessa materia, per sua stessa volontà. Devi accettare di assistere al suo grande gaudio di assistere te nel tuo sguardo perso e stupito. Piacere che in lui si rinnova ogni volta. Per ogni singolo ascoltare, finché i propri ospiti abbiano modo di capire anch’essi quello stato entusiastico in cui lui pare girovagare con energia inesauribile come fa tra quelle siepi fatte di trasparenza. Sono siepi fatte di materia mentale che ha preso la forma provvisoria di un suono prodotto, da un agire che va oltre il gesto, “in un flusso di azioni, non un grido ma il gridare prolungato e articolato”.

Ho così scoperto l’ultima sorpresa che mi riservava il suo grande labirinto trasparente, con ferma volontà, sì da lasciarmi guidare e mettere in atto quel tanto di perdita dell’orientamento che uno spettatore non malfidente deve concedere, però non quella di seguire i suoi cartelli misteriosi, cosicché potessi tenere per me una piccola bussola per vedere se ero in grado talvolta di rallentare la corsa tra le siepi, talvolta di porgli la domanda fatidica in corsa: “Ma tu sai dove siamo?”. E felicemente sentirmi rispondere: “Che bello che qualcuno finalmente mi fa questa domanda. Tutti pensano che io lo sappia. Invece non ne ho idea. Mai!”

La ricerca. Il Sistema HN. “Hic et Nunc”

Questo non significa che lui non sa come ci sia arrivato, come siano i criteri di suddivisione dello Spazio-Tempo (o del Suono), che non saprebbe dissertare ore sulle tecniche costitutive di quella struttura e della intricata rete di significati e significanti che ha predisposto. Significa che lui predispone tutto al millesimo,  ma il luogo dove atterrerai tu,  lui,  chiunque sia lì nel HIC  et  NUNC, il qui e ora che dà le iniziali al suo sistema compositivo (Sistema HN®), deve essere inconoscibile fino al momento del presente assoluto che si darà solo nel momento in cui si deve dare, il presente unico che ogni istante coscienziale offre all’umano. L’"atto corporale acustificato", l’evento, la percezione, il riverbero interiore emotivo dell’esecutore, quello dell’uditore/visore sono distinzioni del linguaggio, da cui Dario a massima intensità mira a portarti fuori, a farti deragliare, catapultandoti nel presente in cui sei. Il labirinto ora assume le sembianze di una mappa fantasmatica riposta su un territorio grande quanto la mappa stessa. Come nella celebre immagine di Borges, della mappa dell’Impero fatta in scala uno a uno. Quella mappa che finisce per corrispondere con il territorio, nell’ansia di diventare sempre più precisa. Qui si ha un labirinto che non è reale perché è una mappa di un labirinto che non è a sua volta reale che rimanda ad un labirinto che non è reale, creando la figura a riduzione scalare in cui ogni riflesso conterrebbe l’originale e pertanto nessuna in particolare è costretta ad esserlo. Sono tutte irrealmente vere. Il paradosso non è retorico. Quando lo ascolterete argomentare, suonare, riflettere, performare una sua composizione, avrete sempre la sensazione di questo punto di fuga che non si raggiunge mai, che scappa via, verso cui poter solo continuare a tendere, fino al momento in cui smettendo di illuderti di cercarlo ti ci ritrovi immerso, quello è il Presente cui Dario fa riferimento. Tale sensazione è a momenti deliziante, a momenti spossante, nondimeno non ci può lasciare mai indifferenti, poiché persino la volta che ti spossa ti resta dentro l’impressione che hai deciso tu di andare verso la tua medesima spossatezza, allo stesso modo di chi decidesse pretestuosamente di non uscire sorridente dal labirinto, per potersi lamentare con chi lo aspetta fuori e raccontargli di aver solo perso tempo prezioso a girare come un citrullo. Il fatto è che questo citrullo è stato intrappolato dalla sua refrattarietà ad assaggiare il presente. Eppure sentendosene attratto inconfessabilmente: per questo non mostra il suo piacere, ma lo vive, lamentandosi poi per depistare gli altri. Anche questo può diventare un indizio, questo fastidio, per tornare a verificare se la seconda volta saremo in grado di farci cogliere dal presente anziché inseguirlo come predatori che inseguono la preda.

Mettendo insieme le varie immagini con cui si può soltanto tentare di tradurre in parole l’opera di Dario Buccino, noterete che l’elemento di illusorietà se ne viene assieme a quello di massima concretezza.

Studiando meno superficialmente i processi intellettuali e creativi ‘puri’ di Dario, lungo il corso di decadi di lavoro finissimo, su più strati della struttura da lui indagata e contemplata ininterrottamente, come un oracolo che deve dare presto o tardi una risposta definitiva al mistero della vita, si atterra su un altipiano familiare, in contrasto con tutta l’astruseria di cui abbiamo creduto doverci attrezzare per comprenderlo.

Dietro la forma, oltre le forme, in buona compagnia

È un luogo pieno di emozioni, di umiltà, di sottomissione alle domande che contano, di laboriosità propria di chi ancora crede nelle regole di quando si andava “a bottega” ad imparare il mestiere del fare Arte.

Per certi aspetti tutta la sua ricerca, identitaria e di funzione artistica, ricorda il personaggio del Gioco delle perle di vetro di Herman Hesse. Dario come il protagonista Knecht, che prima sceglie di seguire le tracce di un mondo chiuso ed altamente dedito alla speculatività intellettuale e spirituale (al cui centro – negato – sta il vero amore per la musica) ma poi sente che quel confinamento in Castalia non lo contiene e non lo completa. Essa è il luogo fisico, chiuso e isolato come un monastero medievale, in cui adepti, come monaci di clausura, si dedicano a questo misterioso gioco delle perle di vetro in cui i saperi di tutte le discipline nobili vengono collegate tra di loro da complicati nessi più difficili e sottili che nel gioco degli scacchi. Dove a vincere è l’erudizione assoluta coniugata ad una sapienza interiore indispensabile. Nonostante il protagonista primeggi in questo gioco di alchimie ideative e strategie di supremazia conoscitiva, al punto da diventare il priore di Castalia, ben presto realizza che vestire i panni di Magister Ludi, carica conferitagli, è troppo angusto per il suo naturale desiderio di libertà e di donarsi agli altri, specie quelli fuori da quel mondo separato ed ascetico. Così decide di partire e andare nel mondo, dismettendo i panni e le annesse responsabilità e dedicarsi ai bisognosi. Finirà col formare un ragazzo problematico, malgrado ciò gli arrechi difficoltà e un finale tragico. Mi pare rassomigliare molto la dedizione che dalla clausura induce a scegliere la libertà, senza abbandonare il Sapere Perenne, calandolo però nel mondo, donandolo ai non iniziati, nel personaggio di Hesse e in Dario. Come simile mi è apparsa la strutturazione di un dispositivo concettuale e pratico così sofisticato come quello del gioco delle perle di vetro con il suo sistema di scrittura, di esecuzione e di intelletto astratto volto verso l’interiorità spirituale.

Gli esordi

Le ha passate tutte le forche caudine che gli inventori di qualcosa di originale devono attraversare umiliandosi. Finché siano passati dal vaglio favorevole di una qualche consorteria di piccolo o medio establishment che abbia infine rilasciato in tempo reale l’imprimatur tanto atteso. (E ahinoi, i Conservatori italiani – hanno smesso da poco – ma sono stati a lungo come pochi altri istituti culturali un nomen omen quasi irridente: basterebbe cambiare l’accento sull’ultima ‘o’ e da aperta chiuderla, che da sostantivo diventerebbe un bell’aggettivo, i “conservatori” italiani). Quando era un giovane innamorato delle sue intuizioni e vedeva ovunque formarsi nella sua mente qualche traccia di quella che sarebbe poi diventata la sua ideazione più innovativa, davanti a sé trovava il classico professore di armonia e composizione che non mancava occasione per ricordargli che la sua idea di composizione fosse una forma di “psicopatologia”, “aria fritta”, “puttanate”, e che lui era lì “per imparare ciò che altri avevano inventato non per sperimentare le sue proprie invenzioni”.

L’Italia, questo inesauribile scrigno di meraviglie ed orrori disposti gli uni accanto agli altri, vantava – è di buon auspicio usare un verbo al passato – nella grande maggioranza dei luoghi di responsabilità e potere, persone che per quanto hanno penato a raggiungere tale posizione, per quanto supina sia dovuta essere la loro posizione per la propria ascesa gerarchica, per quante gomitate hanno dovuto dare ad altri contendenti, per quanto accorti siano dovuti essere nel “fare le scarpe” con solerzia, che, quando tocca a loro di occupare la posizione dominante, è più forte di loro: non resistono a cavar fuori tutta la frustrazione accumulata e la rabbia  trattenuta, per riversarla come una cascata di livore sul giovane entusiasta pieno di aspirazioni e idee.

Il caro Dario, fortuna volle che avesse dalla sua una vocina interna, infrangibile al martello del sopruso morale. Per esempio quello dei baronati di casa nostra. Oltre ad una persuasione, assolutamente da folle, che le sue proprie fissazioni, così eccentriche rispetto al corso di studi canonici, non potessero che essere assecondate de sé medesimo in prima istanza, pena la vera follia. In attesa del giorno in cui sarebbero divenute mature e portate alla soglia critica, quel punto in cui nella materia si raggiunge il cambiamento di stato. Vale anche per le cose immateriali. Quante volte si ascoltano storie simili. In privato o nella Storia maiuscola, vi sono sempre aneddoti di persone dotate dalla sorte di istinti invincibili, in grado di reggere il carico di ostilità che spezzerebbe la schiena a chiunque altro, fino a vedersi riconosciuti dai propri stessi detrattori, a cose finite, magari a distanza di venti o più anni. Il merito, che fu negato quando serviva riceverlo, si ottiene quando non costituisce più un merito agli occhi dello stesso artefice del merito!

Io credo che le volte in cui questo accada sia sempre minore al numero di soprusi finiti nel dimenticatoio, ciononostante un senso di grande contentezza sale quando una “storia sbagliata” vira verso il diventare una “bella storia”, prima di essere un riconoscimento postumo. Quella di Dario è una storia molto bella anche tenendo bene a mente tutte le ingiustizie che il contesto circostante da cui dovevano giungere i sì, diceva “no, mai!”.

Dario-Pinocchio e la Fata Turchina

Poi un giorno, nelle storie che volgono in bene, arriva la Fata Turchina, quando sei lì lì per rassegnarti a restare un burattino di legno, monello. Lei ti indica la possibilità concreta di diventare un bambino in carne ed ossa. Per Dario il nome di questa fata risponde a Metzger, illustre teorico musicale tedesco contemporaneo, presente anche nell’enciclopedia della musica Garzanti, che dopo averlo ascoltato in una sua opera eseguita dal vivo proferì quelle poche parole che cambiano il corso di una vita. Da una altura che il burattino Dario non si sarebbe mai sognato qualcuno potesse degnarlo di uno sguardo, riceve la benedizione fatale: “Era dai tempi di Variations VIII di John Cage, 15 anni fa, che non ascoltavo un lavoro così originale e sorprendente sulla materia musicale. Continua così. Vai fino in fondo. Procedi senza esitazioni in questa tua intuizione, perché non troverai altri maestri nel luogo in cui sei giunto, tocca a te ora farti Maestro”.

Confermando con questa investitura altri commenti ricevuti in tempi di poco precedenti che avevano incoraggiato Dario non solamente a non desistere dalla sua ricerca, semmai di radicalizzarla ancora.  

Sei uscito dalle grinfie del Gatto e della Volpe che ti hanno derubato dei tuoi averi interni più preziosi dilapidandoli a parole e ti ritrovi coccolato nella casa della Fata Turchina, come l’ospite più speciale. Infatti se a pronunciarle fosse stato il fornaio sotto casa non avrebbero avuto lo stesso effetto. Magari un sussulto di orgoglio al motto “il popolo mi capisce!”. Se a pronunciarle è un’autorità indiscussa nella musica contemporanea (e non sor Mario), che da anni, senza averti avvertito di nulla, è il consulente principale della più importante istituzione di musica contemporanea del mondo, la Scuola di Darmstadt, le cose sono un po’ diverse.

E se per di più ti fa trovare a sorpresa il tuo nome in mezzo alla lista dei nomi del corpo docenti, che comprende i 50 compositori contemporanei più innovativi del momento, nella stessa lettera dove si promuovono i corsi di quella stagione per gli studenti di tutto il mondo, (mentre tu stavi ancora ragionando sull’opportunità di partecipare o meno da studente), beh, capirete tutti che la faccenda cambia ancora più radicalmente. Così è stato. Dario-Pinocchio, musichiere “dell’aria fritta, psicopatico” ha insegnato come compositore alla suddetta Scuola. E ne ha avuto i riscontri che era cosa buona e giusta ricevere. Avendo in quel momento già interrotto gli studi al Conservatorio di Milano – compiendo quel salto nel buio che solo l’avventatezza di chi sente di avere la necessità di esprimere, costi quel che costi, la propria ossessione creatrice riesce a compiere – procedere più sicuro di sé e riconosciuto nel proprio proposito fondamentale è stato sempre più stimolante e sempre meno drammatico. È stato un passo quasi naturale, che gli ha aperto possibilità e sguardi su una serie innumerevole di combinazioni sia immaginative sia esecutive che altrimenti non potevano darsi. Innanzitutto la suddetta radicalizzazione. La ricerca definitiva di quella porta di uscita dal labirinto (necessariamente) ultra-cerebrale di un tardo Novecento.

Tradizioni nobili e scontrose contro cui scontrarsi

Novecento che resiste come periodo storico che sta aggrappato con le unghie per non cedere al nuovo millennio, rinchiudendo in circoli sempre più esclusivi i suoi cultori, che celebrano vere e proprie messe pagane con Luigi Nono, Luciano Berio, Franco Donatoni, Dallapiccola, Petrassi, con lo stesso fervore di quando furono scritte sessant’anni prima fino alla loro reiterazione stilistica, quindi manieristica, proseguito fino a soli dieci anni prima. E sia chiaro che tali nomi, più altri altrettanto o più illustri nel mondo intero, hanno un posto nel pantheon della musica del Novecento per ragioni che nessuno discute, imprescindibili dal valore reale di ciò che hanno lasciato scritto e dalla statura artistica che li contraddistingueva, sfiorante il sublime in più opere. Ovvero giganti. Senza questionare vanamente sul fatto che, come in ogni arte, il Novecento è il secolo di rottura con una fruizione classica e armoniosa, pertanto il gusto di un pubblico non colto può non cogliere il valore intrinseco di una creazione se non è a conoscenza delle stratificazioni di segno e di senso che stanno alla base dell’opera. Un orinatoio affastellato in una discarica di periferia o ancora appeso ai ganci di una scuola elementare nel bagno dei maschietti, è lo stesso identico oggetto di quello che Duchamp scelse per la sua opera d’arte dadaista intitolata “Fontana”, ma il primo è un pezzo di ceramica repellente, l’altro è appeso ad un filo del Centre Pompidou a Parigi. Vale milioni di euro. Rappresenta il punto massimo di rottura con una tradizione millenaria di arte e l’apertura formale della guerra (necessaria) al Bello. Una guerra che l’Arte Contemporanea ha dovuto dichiarare per esistere, innanzitutto, e per significare il mondo in corso d’opera che pretendeva narrare, senza portarsi dietro le categorie dell’Ottocento, in secondo luogo. L’anti-artisticità della “Fontana”, preceduta da Manifesti vari di diversi punti di vista sulla violabilità dei canoni estetici ed etici del passato, è stato al suo esordio l’elemento di massima artisticità. Questa lezione si è andata però come fossilizzando. Ha finito cioè per diventare a sua volta un dogma; però – si dovrebbe obiettare ­– un dogma che rompe i vecchi dogmi non è per nulla esente dall’avere la stessa violenza del dogma che va a sostituire! Infatti, non lo è. Accadde allora, per evitare di veder sostituito quell’ultimo dogma, che l’unica possibile ricetta ammessa come variazione all’anti-artisticità fosse di nuovo l’anti-artisticità, la cacofonia, la destrutturazione, comprendendo tutta la gamma delle sottili affiliazioni derivanti dal criterio dell’infinita ‘complessificazione’ del materiale trattato. Un po’ come avvenne per il Rococò come sviluppo del tardo Barocco.

Musica o poesia, pittura o scultura, performance o altro, sono da considerarsi tali, recita l’adagio non dichiarato ma tacitamente riconosciuto dagli accoliti come Verbum, se e solo se – pur restando nell’alveo di ciò che è ‘brutto’ (lasciatemi scherzare esagerando) – deve almeno essere difficilissimo, ecchediamine!  Non deve capirlo nessuno! Non sia mai che emozioni qualcuno! Non deve cedere ad una sola convenzione banale, semplice, ordinaria, popolare, terra terra, non può ammiccare a nessuna forma di sentimentalismo triviale. Ma questo non era anche il motto dei Futuristi italiani? “Uccidiamo il chiaro di luna!”?

Sì. E dunque non è un po’ forzato questa idiosincrasia, benché giustificata dalla Storia, protrarla dal 1909 al 2009 senza soluzione di continuità? Per qualcuno no. Affatto. Alzare le mura contro i “barbari” e ritrovarsi in quattro ai concerti è segno distintivo di un elitarismo sacrosanto. E quanta soddisfazione poi dà loro, usciti dal concerto adimensionale, asettico, atonale, criptico ed ermetico, parlare malissimo con immotivato e astioso rancore di personaggi mediatici assurti a miti musicali non per doti ultraterrene ma grazie a manager molto scaltri a promuovere il prodotto giusto nel momento giusto. Quali ad esempio il mai cresciuto Giovanni Allevi o il suo predecessore naturale più raffinatamente “ascensorio” Ludovico Einaudi, o la versione struggente del nuovo Stephen Hawking della musica sinfonica, Ezio Bosso. Dicendone peste e corna perché hanno osato riproporre un mescolone di neoclassicismo e neoromanticismo, riscuotendo un successo imprenditoriale irraggiungibile per i musicisti cosiddetti “veri”. E che ci garbi o meno, i musicisti posticci piacciono perchè citano senza fratture e deviazioni ciò che si è depositato in secoli nell’inconscio culturale collettivo dei popoli dell’Occidente, cioè noi. La via giusta sarebbe quella di chiedersi dunque, però chiederselo seriamente: “Ma perché piacciono così tanto (non avendo poi chissà cosa da dire di originale)?”.

Piccole dietrologie interpretative per grandi temi 

La mia modesta interpretazione sto per esporla a grandi linee. A patto che prima venga liberato il campo dalla teoria paranoide del complotto della lobby gay dei produttori; dalla tesi sociologica del provincialismo fascio-italiota ignorante che perpetua l’infanzia come unica stagione della vita e quindi detesta la complessità; che ci si sbarazzi assieme dall’addurre la causa primaria al mai sopito astio tra la fazione dei Guelfi e dei Ghibellini. Che si sfrondi, in aggiunta, la certezza di fondo dell’amore che gli italiani avrebbero per l’odio…verso la fortuna altrui; e che ci si liberi della tesi intramontabile del senso di perpetua decadenza dei costumi che dal “o tempora, o mores” ciceroniano (solo qualche millennio addietro) ci perseguita fino ad oggi con la tesi dell’ascesa dei barbari al Governo e del venturo Medioevo entrante causato da Maria De Filippi e dai talent show. Il cambio generazionale scambiato per la fine del mondo.

Ecco, fatta piazza pulita di tesi generalizzanti al ribasso e condizionate dal bagaglio ideologico di ciascuno, legittimo ma non vero al setaccio meticoloso dei fatti, si prospetta una seconda ipotesi: il motivo di quel successo deve avere a che fare con il cervello umano. O ancora meglio, di come il cervello umano è stato plasmato da secoli di cultura e in questo caso di ascolti. E forse anche da centinaia di migliaia di anni di genetica. Al rapporto di terza maggiore corrisponde la produzione di certe endorfine galvanizzanti? Mentre a quella di terza minore e a tutte le diminuite compaiono altri rilasci neuronali che corrispondono a “è tempo di rimpiangere gli errori del passato, ora soffriamo”? Si saprà a giorni, vista la progressione della tecnologia in materia.  Ma una volta lasciata ai genetisti e ai neuroscienziati la seconda ipotesi, sulla prima dovremmo inferire che costoro, gli impostori, i fautori della decadenza musicale – va rimarcato – piacciono proprio per via di quella continuità di cui sopra, depositatasi in almeno 6 densissimi secoli di tradizioni. Mozart e Bach compresi. La bella Gigogin e Schubert. E il cervello collettivo è popolare più che avanguardista, sfalsando da una generazione all’altra ciò che era appannaggio di pochi pionieri in ciò che diviene di dominio pubblico. O forse le colonne sonore dei film Hollywoodiani non hanno preso a piene mani dalla musica concreta, dalla dodecafonia, dal free jazz, dai Maestri di cui sopra!?  E la saga di Guerre Stellari dalla mistica giapponese del buddhismo Zen del XV secolo!? E Matrix da Lewis Carroll misto a Dalì, misto a Orwell, misto ad Aldous Huxley, misto alla metafisica del Vedanta induista!? Si parla di un effetto “ritardo” di oltre cento anni in molti casi.

Quindi  l’ascolto dei faciloni divenuti megastar che compongono motivetti orecchiabili anche se farciti di violini e pause pianistiche ad effetto lacrima nostalgica, per lo meno non richiede di saper  risolvere il teorema di Fermat né aver passato anni a studiare il design musicale di Pierre Boulez su spartito; pertanto uno spettatore che si imbatte nelle loro composizioni tascabili saprebbe riprodurre a mente, se non fischiettare, felice, il loro tema laddove non saprebbe parimenti fischiettare l’inversione della versione retrograda in uno a scelta dei capolavori di Schönberg. Ovvietà che val la pena ribadire, a quei musoni che hanno creduto finita la storia della musica dopo se stessi. Aspettino cento anni e vedranno che Musorgskij e Debussy faranno il loro ingresso nei cori dello Zecchino d’oro. Fino ad arrivare a loro tra duecento anni.  

Può darsi allora che la transizione sia durata abbastanza? Che sia tempo per riconoscere il Jazz non come musica del diavolo e le musiche etniche non come versioni più stridenti delle stornellate nelle sagre paesane? Ora per fortuna ciò che auspico sta accadendo in realtà da diversi anni, anche nei contesti alti come i Conservatori. Ma poteva esserci già venti o trenta anni fa una risposta non dicotomica tra le categorie alte e colte e quelle basse e volgari? Poteva, eccome. Però i se non fanno la Storia, eppure di fatto c’era già, nel sottosuolo della società, in un cantuccio nascosto, questo pullulare di forze che puntavano all’emersione, alla commistione non banalizzante. Dario ne faceva parte. Non veniva facilmente identificata l’inevitabilità di questo intreccio per questo difetto prospettico su cosa sia la Tradizione e come possa o non possa essere tradita, stravolta, reinventata. Una cosa è certa. Il tentativo di fare le rivoluzioni a tavolino, poetiche o politiche, è sempre fallito. Ugualmente al tentativo di resistere a qualcosa che non tanto il Fato quanto invece la Necessità sta avverando. Nessuno può prevedere né determinare se attecchirà, quando attecchirà e perché attecchirà un certo qualcosa – di nuovo, brutto, osceno, straordinario che sia – in un terreno vecchio. Lo si sa solo dopo. Qui sorge la annosa questione. Essere previdenti, (non preveggenti), dovrebbe avvalersi dell’attitudine a non bocciare a priori ciò che non si capisce ancora e non si conosce abbastanza per capirlo. Come garanzia a ridurre al minimo le sviste.

Arte vs Politica? Annotazioni discutibili.

Nella cultura angloamericana, che in Italia patisce un manicheismo di interpretazioni dall’armistizio del ’43 ad oggi, una caratteristica marcante il loro dominio culturale planetario indiscusso, non è (soltanto) la relazione diretta e solida, da pronunciare tutta d’un fiato: Hiroshima/BasiMilitari/JeansCocacola/Moda/McDonald/CIA/rimbecillimentodimassa/Trump.Anche se gli eventi recenti sembrano confermare questo pregiudizio e lo rafforzano fino all’estremo con la recente amministrazione. Allo stesso modo in cui ogni italiano si ribella ad essere identificato con la Mafia, Gladio, lo stragismo, il terrorismo, i governi collusi con i poteri criminali e la corruzione, cosucce che ci rendono famosi ed identificabili nel mondo.

Se recita così inveterato il refrain ideologico “anti”, duro e puro, è anche perché ignora tutto ciò che non sia geopolitica internazionale osservata con lenti novecentesche e rimuove tutte le prove contrarie o quantomeno le contraddizioni patenti, presenti in questa tesi ferrea. Rimuove per esempio la Cultura. Le Scienze. Le scoperte tecnologiche. Le fucine di pensiero che sono le loro Università.

Insomma l’assertività di quel vetusto impianto interpretativo dovrebbe venir maneggiato con maggior cautela e non limitarsi a brandire generalizzazioni assolutistiche verso chi ci ha influenzato a più strati, da renderci a tratti indistinti da loro. Non solo in senso critico.

Infatti il più forte, anche quando di fatto assume il ruolo del più prepotente, non è un’unità compatta e se merita severe critiche dove compie (e le ha compiute eccome! Le sta compiendo, le compirà ancora) politiche innominabili, vanta anche qualche merito nella metà nascosta della sua luna. Una per tutte?  Il dire senza riserve “venga, si metta comodo” a qualunque persona dica di avere una sua idea, magari nuova. Quale sia il ceto di appartenenza, la nazione di provenienza, il colore della pelle. Loro la chiamano “Genius Card”, intendendo quel passaporto simbolico conferito all’ingegno umano, al Genio, di chiunque lo abbia.

Il Vecchio Continente ama invece il più nobilitante e altero “no”, per principio. Seguito da un rassicurante: “Se poi da morto ti daranno ragione, avrai vinto tu. Ma intanto io ti dico no!”. Vinto cosa? Questo non si può chiedere. La gara tumulare va ingaggiata senza troppe domande. Specialmente se la casata da cui provieni non ti permette di dire la parolina magica finale: “Ma guardi che io sono figlio di…cugino di…pronipote di…”. Sentendoti rispondere candidamente: “Beh ma allora il discorso cambia!”. 

Tradizione e Trasformazione

Eccomi planare sulla mia tesi di fondo e tornare al nostro amato Dario. Perché alla fine lo amerete tutti.

Dario si poneva in un punto che era nello stesso tempo di eredità col passato, piena eredità, nella fattispecie con quei grandi mostri citati prima ed altri che aggiungeremo nel proseguire questa presentazione. Un’eredità che teneva un piede nella formalizzazione delle proprie idee musicali, cioè il rigore più inflessibile nel dare una struttura intellegibile, parametrizzata e comunicabile a quelle sensazioni e a quei moti dell’animo che si manifestavano allo stesso Dario come forze indistinte del proprio inconscio, sotto le spoglie di bisogni espressivi, masse sonore, intuizioni corporee su relazioni non codificate tra stato, slancio corporale e suono. (Quindi una continuità de facto con la Tradizione, che vuole una procedura razionalizzante e precisa – matematizzabile, al limite – del portato acustico e musicale cui ci si addentra con nuove spinte.) E l’altro piede nella necessità di portarsi fuori da quel solco, non per profanarlo o disconoscerlo, poiché la caduta vera del dogma è anche la caduta del dogma ‘della rottura del dogma’.

E perciò di procedere verso ciò che si manifesta come stato di necessità. All’artista di razza la frase risuona così, più o meno: “Mi è necessario fare così, non so fino in fondo perché”. E seguire quella necessità, fino in fondo. Dario poneva già vent’anni fa stilemi compositivi che a tutta prima potrebbero apparentarsi con certe serialità, atonalità, rumoristica, astrattezza estrema, ed invece avevano tutt’altra genesi e indicavano tutt’altra direzione.

È stato un lavoro lungo ed impegnativo, in primis per lui, quello di decifrare la camera magmatica da cui fuoriusciva quell’energia e i suoi significati impliciti, nonché capire dove avrebbero finito per accamparsi quei significati e in che modo si sarebbero andati ad integrare o frapporre con gli accampamenti di significati precedenti. Questo processo sarà Dario in persona a spiegarlo stasera. Vale la pena ascoltarlo senza una mia anticipazione meno vibrante di quella che ne farà lui, tuttavia vi anticipo che è una spiegazione graduale geometrica e che potremmo trasferirla su un diagramma per quanto è puntuale, sensata, elaborata, ed aggiungerei, ma a posteriori, inevitabile. Non è solo qui che si misura questa integrazione e sintesi tra Tradizione e Trasformazione. Basta ascoltare anche gli altri lavori di Dario, innanzitutto la forma canzone a cui si è dedicato con risultati non meno interessanti di quelli puramente compositivi, per capire che l’opzione di manifestare il suo talento artistico non ha preso una strada preconcetta, stilisticamente fissata. Le canzoni virano in tutt’altra direzione, mantenendo intatto il nucleo di esigenza espressiva originalissima, traboccanti metafore non scontate, accostamenti arditi e perfettamente riusciti tra sinfonismo, canzone popolare, composizione cameristica, poesia, recitar cantando, performance teatrale, con un tocco punk, un gusto nobile per le sonorità ricercate impastate con un caos studiato meticolosamente per confondere le carte e creare il senso di sorpresa emotiva ed uditiva. Un lirismo puro mescolato con una prosa improvvisamente colloquiale, surrealistica, ironica, poi nuovamente svettante verso le questioni cardinali della vita. A citare le assonanze con altri grandi del passato non finiremmo più. Lui è selettivo nel gusto ma onnivoro nel recepire stimoli altrui. Ognuno troverà tracce che il proprio orecchio riconosce. Sono tantissime.

Abbiamo dunque la prova. Dario non ha sposato nessuna ortodossia formale, scontando questa indeterminatezza così: come non hanno riconosciuto i dottori della musica la sua ricerca quando tentava di metterla alla luce, così vent’anni dopo per qualcun altro può sembrare che lui faccia parte di quel gruppo culturale elitario che invece lo ha respinto. Allora perché creduto troppo semplice e naïf, oggi perché creduto troppo complesso e criptico. E nella versione cantautorale lo hanno respinto, pur selezionato al Premio Tenco, solo perché troppo raffinato, troppo avanti, troppo poetico, cioè di nuovo, troppo qualcosa, troppo poco qualcos’altro. Mai appieno per ciò che è. Sempre per ciò che non è. Può darsi che questo è l’ineluttabile destino di chi inventa qualcosa che non c’era. Ma chissà perché in Germania lo hanno accolto a braccia aperte…Chissà cosa sarebbe stato di lui, come cantautore, in Francia o anche in Spagna e Portogallo, o in Brasile… Io insinuo che avrebbe goduto di maggior considerazione, in tempo reale.

Personalmente insisto anche nel ritenere che Dario sia ancora in pieno volo e che il vero atterraggio sia di là da venire, ma per chi si accontenta di  una sola grande impresa, sarà soddisfatto di cogliere l’implacabile progressione di domande e risposte sul campo, che hanno condotto infine quella vocina interiore alquanto anomala a diventare un Sistema completo, ritenuto a tal punto completo e originale, che ora lo stesso Conservatorio che lo ha amabilmente pregato tanti anni or sono di non fargli perdere tempo, oggi lo invita ad insegnare “il suo metodo”, quello che non era lì per studiare allora ma che ora evidentemente vale la pena sia lui ad insegnare agli attuali allievi di composizione. Piccole soddisfazioni che si fanno grandi quando non le si aspetta più. Diventano doni. Dario oggi ce l’ha avuta la soddisfazione di questo dono.

Senza entrare troppo nel dettaglio voglio solo anticipare che nell’attività compositiva di Dario la novità assoluta è rappresentata, a mio parere, dall’intero processo che la costituisce. Cioè dalla corrispondenza tra processo e risultato finale. Indistinguibili. Ed inoltre dall’avere saputo mettere a punto un linguaggio che pur restando nel senso dell’udito, se ne discosta continuamente, ampliando ad altri sensi, ma più che altro, introducendo le due dimensioni più lontane tra loro stando alla norma: l’intelletto e l’emozione.

Nel suo lavoro si viene a costituire quella rete di significati interdipendenti tra loro, nessuno dei quali è superfluo, nessuno dei quali può restare inalterato se se ne altera uno degli altri. E sono significati sensoriali, vibratori, uditivi, cognitivi, intellettivi, emotivi, prossemici, gestuali, estetici e di pensiero puro. Per tradurre in modo adeguato una simile commistione organizzata di grammatiche e di linguaggi ci voleva una mente in balia di una furiosa mancanza, da colmare con una strabiliante pienezza di segni, quella che si dice appartenga ai grandi artisti.

Lo vedrete da voi come questo nuovo idioma ha coniugato Tradizione e Trasformazione, toccando gli estremi di ambedue. Provocando i limiti di entrambi i confini. Pervenendo alla fine a una misura completa, uniforme, coerente, che non sarebbe affatto incongruo se fosse presente nei Musei di Arte Contemporanea che contano, se da noi la suddivisione tra generi d’arte non lo collocasse forzatamente nel solo alveo della Musica Contemporanea.

“Non solo…ma oltre” 

A mio avviso Dario non è più solo un musicista. Forse non lo è mai stato, “solo un musicista”.

Non solo perché guardarlo eseguire un brano alla lamiera HN® ricorda certi danzatori di Pina Bausch o certe dinoccolate evoluzioni del primo Celentano aerobico e colpito da spasmi improvvisi mentre danzava (approfitto per dire che tra le confessioni a cielo aperto, oltre alla Carrà, Dario cita il suo amore da bambino a prima vista per il “Molleggiato”, specialmente nella versione gaudente del Prisencolinensinainciusol, che secondo me riecheggia ancora in certi tratti del suo lavoro di cantautore raffinato).

Spero con questa serata, e col vostro aiuto, di rompere in lui gli ultimi indugi – rimasti a causa della lunga tenzone sostenuta con ambienti accademici per non farsi né scambiare per un improvvisato, estemporaneo, né per uno snob involuto e cervellotico – mostrandogli l’evidenza della sua effettiva prismaticità quale quintessenza dell’eredità che sarà lui a lasciare agli altri.

In alcuni aspetti tecnici e teorici dello sviluppo articolato del suo lavoro proveremo ad intrometterci con questo argomento, per vedere se regge o crolla, alla prova dei fatti.

Dario suona molti strumenti, canta in molti modi, si esibisce in molti contesti, dal teatro nobile con attori famosi, a salette domestiche volutamente apprestate per diventare sale da concerto per non più 25 spettatori, da grandi battelli riempiti con centinaia di percussionisti in esposizioni viventi di partiture percussive per cause civili, a cantare le sue canzoni per chitarra e voce in un'Università italiana, dalle lezioni del Conservatorio con le sue inseparabili lamiere HN®, alla sortita per strada in Via Dante a Milano per vedere come reagiscono i passanti a composizioni che hanno richiesto anni di approfonditi perfezionamenti e che possono sembrare suoni industriali fatti a casaccio. Su di lui si scrivono tesi di laurea, più d’una, fanno documentari, si dibatte negli ambienti di riferimento e si accendono vive discussioni tra chi sente di aver avuto la vita cambiata da un suo concerto e chi continua a dire che non lo capisce ma capisce che è geniale.

Lui osserva le reazioni e annota, riflette, poi scrive, poi legge qualche libro che rischiari meglio la zona d’ombra dove si è imbattuto e decifra daccapo il suo stesso sapere. Per queste ragioni è molto amato, non solo come musicista puro, come compositore, come esecutore, come cantautore sui generis, come insegnante, da colleghi più disparati, ma proprio amato per la generosità inalterata della sua proposta artistica che non si può scollare mai dalla proposta umana. In lui coincidono come poche volte accade di vedere.

Auspici e Palingenesi

Questa sera, ascoltando il suo racconto, scopriremo assieme come tutto questo processo organico di maturazione-macerazione-fruttificazione sia stato causato in una parte fondante da un episodio decisivo, un’esperienza giovanile, che ha cambiato per sempre la prospettiva e la percezione di Dario sulla vita. Su tutto. E di come tutto ciò che ha detto, fatto, agito, inventato, scavato, portato alla luce, ridiscusso, amato, forsennatamente inseguito contro tutto e tutti, sia in una relazione intima con l’epifania che da giovane si è trovato a dover affrontare e a cui non ha potuto, non ha proprio potuto, esimersi dal cercare una risposta all’altezza. Ma l’ha trovata. L’incontro rivelatore per eccellenza, nella vita di un umano, è il prendere coscienza della propria mortalità. Non in senso astratto. Sentire che c’è il bordo dell’esistenza che sta risucchiandoti fuori da essa, nel vuoto, nel mistero, nella morte, nell’Ignoto, o verso Dio. Tutto ciò che si presenta con la parola “io” e “fine” una vicina all’altra, pronte a fondersi per davvero. La rivelazione di Dario non è stata di ordine metafisico o mistico religioso, o almeno non lo è stata nel modo in cui siamo soliti considerare questi due ordini di epifanie. È stata una terza versione di epifania, come la risposta che darebbe chi vive una rinascita in vita dopo aver stretto un’alleanza possibile con la Morte, quindi un battesimo profano, una riemersione alla pienezza dell’esistere. Forse le braccia della morte più che angosciarlo nell’attrarlo a sé in veste di destinatario designato, lo hanno spinto ancor più forte indietro, dentro la vita, vincendo ogni  resistenza volontaristica  e spezzando una volta per tutte il vincolo di spazio e tempo, per dargli l’opportunità di cogliere quello che i poeti, i saggi, i grandi filosofi, i mistici autentici, di ogni epoca e latitudine, hanno cercato di comunicarci: c’è solo il Qui e Ora, c’è solo Il Presente Assoluto, che si estende al passato e al futuro, c’è solo il TuttoèVita: vivi!!!

E lui ha risposto: “Eccomi, sono qui”.

Allora eccolo qui, per noi, adesso. Ascoltiamolo insieme.

© 2019 Alessandro Rossi

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Con le parole di Dario
(tratte dal suo sito, www.dariobuccino.com)

“A un certo punto della mia vita ho sentito il bisogno di definire un modo di creare musica (uno stile operativo, prima ancora che uno stile estetico) che mi permettesse di organizzare compositivamente, fin dalla pagina scritta, non solo i fatti sonori, ma anche l'intensità esperienziale (*) con cui affrontarli nel momento dell'esecuzione”.

“La mia immaginazione musicale tende a procedere non per creazione di immagini sonore, ma per creazione di unità irriducibili di immagini sonore e immagini performative.”

“Non mi interessa il fatto acustico in sé. Non mi interessa l'atto esecutivo in sé (**). Mi interessano le dinamiche della loro relazione. E queste dinamiche, a loro volta, non mi interessano in sé, ma nella loro possibilità di accendere nell'ascoltatore (e nell'esecutore stesso) una palpabile sensazione di esserci – qui e ora – e una sottile e profonda risonanza affettiva.”

“…occorreva innanzitutto definire una sintesi grafica delle idee che non si concentrasse esclusivamente sulla loro forma udibile. Il sistema di notazione, che ho messo a punto in risposta a quest'esigenza, costituisce il cardine metodologico di quello che ho chiamato Sistema HN®, piattaforma pratica per l'articolazione della mia fantasia compositiva e del mio rapporto con l'interprete.”

“…più che consegnare all'interprete la richiesta di produrre un determinato suono, io consegno all'interprete la richiesta di attuare un processo fisico – ovverosia, di compiere un'azione fisica e di compierla in un certo modo, secondo parametri espressi in simboli grafici nella partitura”.

“In verità, la richiesta di produrre un suono ben preciso viene fatta, eccome, all'interprete! Ma i dettagli di questa richiesta si concentrano più sull'atto corporeo che non sull'esito sonoro”.

“I dettagli sono talvolta numerosi, capillari, invasivi...Talvolta, invece, la partitura veicola solo pochi segni, che riassumono un lavoro pratico condotto direttamente con l'interprete” “…legati alla percezione che l'interprete ha del proprio stesso agire, nel qui e ora dell'esecuzione. HN infatti è l'acronimo di Hic et Nunc, ovvero: qui e ora”.

“…lo scopo è quello di arrivare a controllare…a interferire con l'intensità esperienziale dell'atto esecutivo dell'interprete” “…e tramite un processo di contagio esperienziale – provocare la massima accensione dell'intensità dell'atto ricettivo dell'ascoltatore”.

“…occorre ideare azioni e suoni davvero belli, cioè che sprigionino già da sé una tale forza, da dettare al compositore le forme di cui hanno bisogno per splendere al massimo…creando l'entusiasmo…performativo nell'esecutore e sedurre l'attenzione sensuale ed emotiva dell'ascoltatore”.

“Raramente […] utilizzo un vero e proprio palcoscenico […] lavoro spesso nel buio quasi completo, per scoraggiare la tendenza letteralizzante e banalizzante ("...ah, ecco cosa sta facendo!") della percezione visiva.”

“Decisivo è, infine, il momento esatto in cui ogni fatto sonoro avviene, ovvero ciò che precede, ciò che segue e ciò che avviene simultaneamente a ciascun fatto: questa o quest'altra successione, questa o quest'altra sovrapposizione o non sovrapposizione polifonica di eventi udibili, provoca l'emersione di questa o quest'altra specifica e precisa carica simbolica. Ed è esattamente quest'ultima a costituire l'intensità dell'esperienza ascoltuale”. “La carica simbolica di un ordigno estetico è la sua capacità di far esplodere significato. Catene di esplosioni di significato”.

Breve biografia

Dario Buccino (1968) è un compositore, performer, didatta e progettista di strumenti musicali.

Nei primi anni Novanta ha sviluppato il Sistema HN®, un sistema di tecniche di composizione, notazione, esecuzione e improvvisazione, basato sulla parametrizzazione dei processi performativi.

Nel 1994 è stato docente agli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt, dove ha presentato il Sistema HN, definito da Heinz-Klaus Metzger come "l'invenzione artistica più sorprendente degli ultimi 15 anni".

Le sue opere uniscono composizione, performance, scultura sonora e sono state presentate in festival internazionali e presso istituzioni quali il Teatro La Fenice di Venezia, il Teatro Stabile di Torino, l'Auditorium Parco della Musica di Roma, il Festival Fabbrica Europa di Firenze, il Beijing Comedy Theatre di Pechino, l'Oriental Arts Center di Shanghai.

Ha tenuto seminari e laboratori sul Sistema HN presso il Conservatorio di Milano, il Conservatorio di Trapani, L'Università di Palermo, L'Università IULM di Milano, l'Università SUPSI di Lugano, il Politecnico di Milano.

Ha fondato e dirige l'Ensemble HN, specializzato nella realizzazione dei lavori scritti con il Sistema HN.

Ha creato le Percussioni HN®, una famiglia di strumenti musicali che coinvolgono l'intero corpo del performer nella creazione sonora, che hanno attirato l'interesse di percussionisti come Guido Facchin, Evelyn Glennie, Christian Hamouy (Les Percussions de Strasbourg). 

Il suo lavoro è stato oggetto di pubblicazioni musicologiche, tesi di laurea e film documentari.