A proposito di Mi dico n° 2+3

Lettera a Paolo Emilio Carapezza 
Milano, 1 aprile 2008
  

Caro Paolo Emilio, 

come ti dicevo nell’e-mail, il titolo esatto della composizione è Mi dico n°2+3.
Qui di seguito puoi leggere una scheda sintetica di presentazione del brano:

Mi dico n° 2+3 | Per lamiere a due/otto mani e percussioni (2007) 

Lamiera a otto mani: Francesco Gallea, Flavio Giaconia, Nicola Cammalleri, Riccardo Ferrara
Lamiera a due mani: Giovanni Cucchiara
Sonagli: studenti dei licei S. CannizzaroF. AprileG. Meli, di Palermo
Tam-tam, gong. timpani, grancassa, tom: Percussionisti del Conservatorio A. Scontrino di Trapani
(Ivan Adorno, Luca Bruno, Christian Cavaliere, Stefano D’Amico, Gregorio Di Trapani, Dario Li Voti)
Direttore: Dario Buccino

Registrazioni di Mi dico n°2 (2002) e Mi dico n°3 (2002) effettuate dal vivo presso I Candelai a Palermo (17 Aprile 2002)
Registrazione: Giuseppe Greco 
Rassegna: Il Suono dei Soli
Montaggio di Mi dico n°2+3 (2007): Dario Buccino 

Si tratta come vedi del montaggio di due composizioni pre-esistenti: Mi dico n°2 Mi dico n°3. Anzi, per l’esattezza, si tratta del montaggio delle registrazioni effettuate dal vivo di queste due composizioni.
Ho utilizzato due segmenti dell’una e un segmento dell’altra, sovrapponendo per due tratti le composizioni. Non c’è nessuna elaborazione elettronica del suono e il montaggio è molto semplice: Mi dico n°2+3 può essere eseguito dal vivo così come lo si sente nella registrazione. 

La serie dei Mi dico (ne ho scritti un gran numero, ma ne ho salvati solo cinque dal rogo della mia severissima autocritica) fa parte del Ciclo Ma vero.
Il ciclo ruota intorno alla composizione Ma vero (1997-2006), una composizione che a tutt'oggi considero centrale in questa fase della mia ricerca. È un lavoro che mi ha richiesto un tempo di elaborazione molto lungo, come vedi: nove anni per l'esattezza, dalla prima intuizione alla forma definitiva. È la composizione in cui per la prima volta ho utilizzato le lamiere come perfetto strumento per la realizzazione dei principi del Sistema HN

Mi dico sono nati come pezzi-costola, per isolare e sviluppare aspetti di Ma vero che reclamavano un proprio spazio autonomo. La definizione di pezzi-costola non implica che la loro natura sia puramente derivativa. Risparmio dal rogo proprio le composizioni che, pur nate da un intuizione costale, riescono a guadagnarsi una forza propria, che a mio avviso non necessiti più dell’accostamento concettuale (sempre possibile, ovviamente, a piacimento dell’ascoltatore e del conoscitore) con l’organismo originatore.
Tutta la serie dei Mi dico poggia sui principi e sui metodi del Sistema HN. 

Le registrazioni che ho utilizzato per la realizzazione di Mi dico n°2+3 provengono da un concerto tenuto il 17 aprile 2002 presso I Candelai a Palermo.
Il concerto prevedeva i seguenti lavori, in questa successione: 

  • Mi dico n°1, per lamiera d’acciaio solista (1999)
  • Mi dico n°2, per lamiere a due/otto mani e sonagli (2002)
  • Mi dico n°3, per lamiera solista, due tam-tam, due timpani, tom e grancassa (2002)

La lamiera solista, suonata da me nel primo e nell'ultimo brano del concerto, non è udibile nel montaggio di Mi dico n°2+3.

Mi dico n°2 nasce da tre laboratori didattici, ciascuno svolto in uno dei tre licei palermitani qui sopra nominati. Ogni laboratorio si è svolto nell’arco di due pomeriggi.
Il primo pomeriggio di ogni laboratorio ho appeso una lamiera nella palestra della scuola e, dopo aver sottoposto gli studenti a un tipico training di riscaldamento teatrale, ho mostrato loro le tecniche basilari che utilizzo sulla lamiera d’acciaio. Dapprima li ho invitati ad imitarmi, scoprendo e facendo loro scoprire le potenzialità e le difficoltà performative specifiche di ciascuno studente; successivamente li ho spronati a elaborare varianti quanto più creative possibile delle tecniche di partenza. Mentre osservavo il loro lavoro ho formato dei gruppi di due e di quattro esecutori. Ciascun gruppo doveva agire su una sola lamiera, elaborando e incastrando tra loro azioni individuali finalizzate alla creazione di un’azione collettiva compatta. Man mano che l’invenzione si sviluppava, mostravo a ciascun gruppo esempi di notazione grafica che da una parte permettessero di fissare le idee più riuscite, dall’altra stimolassero e aiutassero a organizzare la fantasia combinatoria, per ampliare le possibilità di articolazione di ciascuna azione esecutiva e per comporre sequenze sempre più complesse di azioni. Alla fine del primo pomeriggio ho consegnato a ciascun gruppo il compito di sviluppare ulteriormente le idee e di allestirne un montaggio della durata di qualche minuto.

Il secondo pomeriggio di lavoro (avvenuto due settimane dopo il primo) ho ascoltato tutte le sequenze, ho discusso e lavorato con gli studenti su quelli che potevano apparire – a me e a loro stessi – come punti di forza o punti deboli di ciascuna sequenza, dal punto di vista sia compositivo sia performativo e, infine, ho scelto insieme agli studenti le sequenze più efficaci, invitandoli a una sfacciata votazione reciproca e spiegando con la maggiore onestà e chiarezza possibile le motivazioni delle mie preferenze. Ho più volte sperimentato, nei miei laboratori, come il metodo apparentemente antipatico della votazione permetta in realtà di creare un’atmosfera di responsabilità collettiva nei confronti della performance che si va costruendo. I gruppi esclusi (spesso auto-esclusi, in quanto insoddisfatti della propria sequenza) hanno di buon grado accettato, rinunciando al proprio ruolo lamieristico, di far parte del grosso ensemble di sonagli (il primo pomeriggio avevo raccomandato a tutti gli studenti di procurare tanti sonaglietti del tipo di quelli che solitamente si appendono al collare dei gatti), accorgendosi dell’importanza e delle difficoltà tutt’altro che scontate di quel ruolo corale (immobilità, dosaggio del volume, ascolto dell’insieme, concentrazione, tempismo,  precisione del gesto strumentale da me definito, spiritosamente ma puntigliosamente, R.S.I. – "rotazione senza intenzione” della mano che regge il sonaglio).

Gli studenti dei diversi licei si sono incontrati tra loro per la prima volta il giorno stesso del concerto e mi hanno aiutato ad allestire lo spazio dei Candelai. Ho spiegato a tutti il montaggio globale del pezzo, che avevo definito con precisione solo dopo il secondo pomeriggio di lavoro, avendo ascoltato i frutti maturati, e che quindi nessuno conosceva prima del giorno della performance! Alcuni amici degli studenti, provenienti da altre classi o addirittura da altre scuole, avendo sentito parlare in quelle settimane dello spettacolo sonoro che andavamo preparando, si sono presentati durante queste ultime ore di prove muniti di un sonaglio, chiedendo di poter far parte dell’ensemble. Abbiamo infine effettuato una prova generale, svolta al solo suono dei sonagli, mimando le azioni strumentali sulla lamiera ma senza cavarne alcun suono, per concentrarci sulla memorizzazione della struttura formale del pezzo, per risparmiare energie fisiche, per non distruggere prima del tempo le lamiere e per conservare la massima eccitazione possibile in attesa dell’esecuzione vera e propria che sarebbe avvenuta esclusivamente in presenza del pubblico.

Gli ascoltatori erano sparsi per tutta la sala, i suonatori di sonagli (una ventina/trentina tra ragazzi e ragazze) in piedi, immobili, mescolati tra il pubblico, le due lamiere (suonate a due e a otto mani dagli studenti selezionati) appese più o meno al centro del grande spazio dei Candelai. Il mio ruolo nella performance si limitava a quello di direttore. 

Mi dico n°3 nasce invece da un laboratorio che ho svolto nell’arco di due incontri presso il Conservatorio A. Scontrino di Trapani, nella classe di percussioni del M° Fulvia Ricevuto. Gli studenti del M° Ricevuto facevano già parte dell’ensemble dei Percussionisti del Conservatorio, la cui formazione didattica comprendeva una certa consuetudine concertistica legata anche, e non esclusivamente, alla musica contemporanea.

Il primo pomeriggio ho insegnato ai percussionisti la mia tecnica escutiva con le superball, le palline magiche di gomma spesso usate dai percussionisti di tutto il mondo. La mia tecnica personale si basa innanzitutto su una precisa modalità di fabbricazione delle bacchette: la superficie della pallina (accuratamente scelta tra i tanti materiali presenti sul mercato) viene resa ruvida tramite l’uso di carta vetrata molto spessa; la pallina viene poi montata su una barra tonda in PVC del diametro di 6mm. Ho scelto questo materiale e questo diametro per le caratteristiche di elasticità che conferiscono alla bacchetta (flessibilità e ritorno alla forma originaria). Il “battente” così costruito diventa molto sensibile alle variazioni di pressione, inclinazione e velocità che gli si conferiscono nel farle scorrere sulle superfici risonanti (la mebrana dei timpani, la superficie dei tam-tam, etc…). Diventa quindi possibile selezionare con una certa precisione la porzione dello spettro dello strumento da far entrare in risonanza, e si può pulire il risultato sonoro fino a ricavarne un’altezza nitidamente intonata, che si può far trascolorare in multifonici dal più semplice al più complesso, fino al tipico ruggito più o meno straziato che nell’uso corrente – piuttosto approssimativo, a mio avviso – delle superball costituisce solitamente l’unico materiale sonoro utilizzato. Man mano che gli studenti si appropriavano della mia tecnica escutiva, li spronavo ad articolarla con la massima ricchezza musicale possibile.  Mostravo loro come la tecnica stessa possa diventare veicolo per l’accensione di una intensa attenzione percettiva e propriocettiva e come questa a propria volta possa stimolare e conferire equilibrio all’invenzione strumentale. L’ascolto reciproco tende a dettare spontaneamente un’estemporanea distribuzione, polifonicamente efficace, dei volumi e dei silenzi,  che io incoraggio a modulare con l’intenzione esplicita di raggiungere il massimo godimentoemotivo-musicale. Alla fine del primo incontro ho affidato ai ragazzi il compito di comporre una sequenza, della durata di una ventina di minuti, concepita semplicemente come una successione di combinazioni strumentali (primo timpano + grancassa; primo timpano + secondo timpano + grancassa; primo tam-tam solo; etc…) da esplorare performativamente, ciascuna delle quali della durata di 20/40 secondi. L’unico criterio estetico consegnato era quello fondamentale di puntare a tener il più possibile vivo l’interesse ascoltuale per l’intera arcata della sequenza.

Il secondo incontro – che si è svolto due settimane dopo –  è iniziato con l’ascolto della sequenza composta e lungamente provata dai ragazzi. Successivamente abbiamo lavorato su dei rulli da eseguire sui tam-tam il più forte possibile. Ho mostrato loro come, nonostante io non sia un percussionista e abbia una struttura muscolare piuttosto debole, fossi in grado di produrre un suono molto più forte del loro massimo volume, e con un dispendio di fatica visibilmente minore. Come ben sa chiunque pratichi arti marziali a un buon livello, un colpo sferrato contro un oggetto bersaglio acquista una grande forza, accompagnata a un notevole risparmio di energia (preziosissima ai nostri fini musicali, dovendo sostenere il suono al volume più alto possibile per un tempo molto lungo, senza deflessioni della pressione acustica) se l’arto, veicolo del colpo stesso, rimane rilassato contraendosi solo nel momentumdell’impatto, se la traiettoria del colpo viene sospinta da uno slancio proiettivo ben equilibrato del peso di tutto il corpo e, soprattutto, se si immagina di colpire un bersaglio di molti metri più distante rispetto a quello reale. Nel caso specifico occorre immaginare che l’impulso con cui proiettiamo il battente contro il tam-tam consista in una forza priva di consistenza materiale, un fascio di luce per esempio, lanciata oltre lo strumento, passandovi attraverso, impegnandosi istante per istante a interpretare la consistenza dell’oggetto colpito come una interferenza del tutto impalpabile intercettata lungo la nostra imperturbabile traiettoria ideale. Dopo un’oretta di lavoro su questi principi la potenza del loro rullo era diventata impressionante, come era necessario ai miei fini compositivi. L’ultima tecnica esecutiva esplorata è stata quella dei colpi evento, da me così battezzati per sottolineare la mia esigenza che ogni colpo emergesse come un evento isolato, privo di una connessione musicale-temporale immediatamente evidente col colpo precedente e quello successivo. I colpi evento, che si possono ascoltare effettuati sul tom alla fine di Mi dico n°3 e di Mi dico n°2+3, sono da eseguire con la massima forza possibile e mantenendo il contatto con lo strumento premendovi il battente con la massima pressione di cui si è capaci, a partire dall’istante stesso dell’impatto con la membrana e per tutto il tempo che trascorre tra un colpo e il successivo. Questo esasperato comportamento fisico oltre a provocare un particolare timbro soffocato e alla conseguente evidenziazione uditiva e visiva della componente corporea dell’azione esecutiva, crea nella coscienza dell’interprete una materializzazione esperienziale del tempo, non più passivo, tra un colpo e l’altro, e stimola così la fantasia e la spontaneità con cui perseguirà, nel qui e ora dell’esecuzione, l’impronta a evento di ogni  singolo colpo sferrato. A conclusione del secondo incontro del laboratorio ho illustrato il montaggio globale della composizione e abbiamo lavorato sulla messa a punto degli equilibri di volume e di durata di ogni singola sezione e di ogni ruolo strumentale, equilibri fondamenali per l’impatto emotivo della composizione.

Il giorno del concerto lo spazio dei Candelai è stato allestito distribuendo gli strumenti in punti molto distanti l’uno dall’altro – sparsi in mezzo e soprattutto intorno al pubblico – e collocando la mia lamiera, con cui si apre la composizione, in una posizione leggermente più centrale. Con questa stessa lamiera avrei aperto il concerto eseguendo Mi dico n°1.

Per sospendere ogni lamiera vi pratico un unico foro, lungo uno dei lati corti a metà della sua lunghezza. La presenza di un unico foro permette alla lamiera una grande libertà di movimento e quindi all’esecutore una grande libertà d’azione. Più la fune che sospende il foglio d’acciaio è lunga (e quindi è fissata in un punto in alto dello spazio scenico), più sono ampie le oscillazioni che la lamiera può compiere. Scelgo di volta in volta la lunghezza più opportuna della fune, a seconda delle esigenze dello spazio concertistico e delle composizioni da eseguire.

Non esiste una partitura completa di Mi dico n°2 e di Mi dico n°3 ma solo gli appunti accumulati da me e dagli stessi studenti durante l’allestimento delle composizioni. L’esecuzione comunque, come è evidente dopo i miei racconti, non è aleatoria e persegue una forma esatta. Una forma esatta, pur poggiata strutturalmente sul margine di libertà performativa programmata per ogni singolo gesto strumentale e vincolata da precisi parametri corporei, esperienziali e musicali, come è caratteristico del Sistema HN.

Non esiste quindi neanche una partitura completa di Mi dico n°2+3. Per orientarsi nell’ascolto della composizione può essere utile sapere che la prima lamiera, in ordine di tempo, che si sente è quella suonata a due mani (un solo esecutore) ed è udibile insieme ai sonagli a partire dal minuto 3:47, producendo un semplice velo mobile di suono, la seconda è quella suonata a otto mani (quattro esecutori) e fa il suo ingresso a 4:59.

Se ti fa piacere ti mando volentieri un CD con la registrazione delle versioni originarie di Mi dico n°2 e di Mi dico n°3. Se lo gradisci ti spedisco anche una copia del documentario, di prossima pubblicazione per la Extreme (un’etichetta discografica australiana), sul Sistema HN e in particolare sulle mie composizioni per lamiere. Il documentario comprende alcuni video in cui mi puoi vedere in azione sulla lamiera (compreso il video di un'esecuzione di Mi dico n°1).
Intanto ti allego un mio scritto sul Sistema HN, e un altro sul rapporto tra il Sistema HN e l’uso delle lamiere d’acciaio. 

Concludo raccontandoti la mia soddisfazione per la bella tesi di laurea di Roberto Conigliaro. Come saprai ho avuto occasione di rispondere per iscritto ad alcune sue interessanti domande sul Sistema HN, e così ho potuto osservare, a rispettosa distanza, alcuni aspetti dell’evoluzione del suo elaborato.

Sono a tua disposizione per qualunque ulteriore informazione.

Ti saluto caramente.

Dario

Copyright © 2008 Dario Buccino